
Un affare di famiglia è un film importante.
E non solo perchè ha vinto la Palma d’oro a Cannes 2018, ma perchè scardina le regole e mette in discussione le gerarchie etiche.
Vi spiego perchè.
Di quale affare si parla e di quale famiglia? Il punto è proprio questo.
Se riflettiamo prima sul concetto di famiglia, per come è raccontato in questo film

“Un affare di famiglia” descrive una famiglia che è come una matassa eterogenea; un gomitolo composto da fili di colore e di fibra diversi. Se si utilizza ne verrà fuori un lavoro irregolare e multicolor.
Il senso di famiglia che si respira in questo film è infatti irregolare; è fatto di elementi annessi che si raggruppano seguendo un ordine disordinato: sembra un grande ossimoro della famiglia e in questa prospettiva diventa un ossimoro dell’etica.
L’irregolarità del gesto, che arriva anche a diventare reato, mette in discussione il nostro parametro di giudizio comune.

Eppure la delicatezza emotiva del racconto cinematografico di Kore-eda Hirokazu, regista famoso per questo intimismo, e il rigore, con la dolcezza soprannaturale giapponese, svelano la ferocia contemporanee delle periferie urbane, ma nei toni tipicamente giapponesi.
E’ un film che definirei in questo senso assolutamente giapponese, in tutte le sue forme e i suoi colori.
Il nucleo etico, in cui tutti ci sappiamo riconoscere, assume caratteri e connotazioni così tipicamente nipponici da diventare, a tratti, di difficile comprensione. E’ come se questo film entrasse e uscisse continuamente da tradizione e contemporaneità
Come si forma questa infatti famiglia?
Si forma per scelta: casuale, obbligata, astuta, figlia dell’inganno e della suprema carità.
La bellezza sono i chiaroscuri morali che lasciano senza giudizio. Gli spettatori sono accompagnati continuamente verso una direzione che cambia vorticosamente. Non c’è scelta: si può solo prenderne atto.
Chi ha, infatti, il coraggio di condannare una famiglia che si forma sulla protezione reciproca, anche se gli strumenti sono l’inganno, la convenienza? Del resto i nemici da battere sono feroci: sono la fame, l’abbandono, la violenza, il degrado e il terrore della solitudine.

Questi sono gli affari.
Tecnicamente il film è raccontato benissimo: per la fotografia e la ricostruzione degli ambienti miseri; pochi metri in cui è accatastato tutto come un clutter obbligato, dove tutto è sudicio per forza, ma nello stesso tempo così crudamente accogliente.
Il cibo ha un posto speciale nelle immagini del film.
Il cibo è infatti il simbolo del sostentamento primordiale: recuperarlo attraverso l’inganno giustifica la sopravvivenza. E il gusto, l’assaporare i profumi e gli odori, appaiono una ricompensa che ogni persona merita comunque. I bambini la meritano ancora di più.

E’ questo che mi ha colpito.
Un affare di famiglia è un film che scardina nello spettatore il senso comune delle cose: della famiglia, del degrado, del furto. L’unico senso che resta intatto è quello del l’amore misericordioso. Una misericordia vissuta con canoni impensabili, ma pur sempre una misericordia: il racconto di un’umanità vissuta nel disumano.
il regista Kore-eda Hirokazu ha detto :
Anche se il film voleva essere realistico, desideravo mostrare la poesia degli esseri umani …

Bellissimo l’articolo su “Un affare di famiglia”. Ho visto il film e mi ha colpito per la crudezza delle situazioni che fanno da contraltare ad uno strampalato, ma in qualche modo delicato, schema familiare. La sensibile lettura data nell’articolo ha evidenziato i contrastanti punti di vista della storia e ha fornito una guida che giustifica e alleggerisce i passaggi più cupi.